C’era un tempo, prima della rivoluzione industriale, in cui l’uomo non era un consumatore. Anzi, in molti casi l’uomo consumava solo e unicamente ciò che produceva. Poi il paradigma è cambiato: oggi siamo tutti prima di tutto dei consumatori. Questo perché la società moderna, fondata sull’industrializzazione, continua a proporci oggetti di cui “non possiamo fare a meno”. E certo, una società del benessere non potrebbe – per quanto ne abbiamo capito finora – essere differente: tutti dobbiamo essere dei consumatori, perché tutti abbiamo bisogno di cibo, di vestiti e via dicendo.

Ma forse sarebbe bene interrogarsi su quanto consumiamo e su quanto invece produciamo. Anche perché queste due azioni tendono ad avere degli effetti concreti sulla nostra felicità.

Essere un consumatore vuol dire sentire continuamente di avere bisogno di qualcosa: quella giacca, quel soprammobile, quell’ingrediente, quell’automobile, e via dicendo. Pensando che l’acquisto di questi oggetti ci darà soddisfazione e felicità, cosa che però regolarmente non accade. Essere un consumatore vuole dire quindi avere la sensazione di un vuoto che vogliamo colmare con i nostri acquisti, pur sapendo, in fondo in fondo, che quel vuoto è solo apparente, e che comunque non verrà mai colmato con nuovi oggetti.

Il fatto di “creare”, invece, ci dà felicità. Penso al fare dei tortellini in casa, penso al costruire una casetta sull’albero, a fare un origami, a dipingere un quadro, a scrivere un racconto, a fare dei calzini a maglia, e via dicendo. Quando consumiamo troppo ci sentiamo stressati, delusi, frustrati; quando creiamo troppo… ebbene, è difficile dirlo, perché in realtà, quando ci piace fare qualcosa, non è mai troppo.

Ecco che allora, talvolta, possiamo provare a riempire il vuoto non comprando, quanto invece facendo, con le nostre mani, con la nostra testa, puntando anziché a consumare, a produrre qualcosa che possa aggiungere valore al mondo in cui viviamo.

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